Sergio Tofano, in arte Sto, il creatore del mitico personaggio dei #fumetti in rima sul “Corriere dei Piccoli”, fu anche un grande attore e regista di teatro. Da insegnante di recitazione all’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico, ebbe un’allieva prediletta nella giovane Maria Luisa Ceciarelli, che lui chiamava affettuosamente “Cecia”.
Tofano le insegnò a giocare coi suoi difetti, a partire dalla voce roca, per rafforzare la sua recitazione. La “Cecia” ci riuscì talmente bene da diventare (con un nome d’arte, sempre suggerito da Tofano) Monica Vitti, icona del nostro miglior cinema.
Tra i tanti, meravigliosi, personaggi interpretati dall’attrice sul grande schermo, nel 1966 c’è anche Modesty Blaise, avventuriera nata nelle strisce disegnate di Peter O’Donnell per il quotidiano “Daily Express”…
Il film diretto da Joseph Losey non è granché e non rende nemmeno onore al fumetto d’origine, ma ribadisce la simpatia di Monica stessa per i comics. Qualche anno dopo, in una delle sue ultime grandi interpretazioni cinematografiche, Monica Vitti recita nei panni una ragazza misteriosa e volitiva che attraversa il Sud in sella ad una moto, accompagnata da una giovane Claudia Cardinale.
Direte: cosa c’entra con il fumetto stavolta? In effetti poco, se non fosse per il titolo della pellicola: “Qui comincia l’avventura”, proprio come il mitico incipit delle storie di Sergio Tofano e del Signor Bonaventura…
Me lo chiedevo ieri sera, in una sala cinema gremita di persone della mia età ed anche più grandi, mentre riguardavamo i primi due episodi di “Spazio 1999”, vecchia, mitica, serie tv di fantascienza che sta per compiere 50 anni… Lontanissima da noi in termini di spettacolarità, di ritmo, di linguaggio, ma capace ancora – almeno ai miei occhi – di restituirmi il fascino profondo che provavo, guardandola da bambino.
Certo, ci sarà di mezzo anche la sindrome di Proust che, invecchiando, ti fa trasformare qualsiasi oggetto o suono o sapore di un tempo in una “madeleine” emozionale e nostalgica.
Ma credo che c’entrino anche le qualità del racconto. E in questo caso, la capacità degli autori di costruire una storia che, ancora prima che l’incredibile avventura spaziale di astronauti sperduti nel cosmo, mette in scena i dilemmi umanissimi di alcuni individui di fronte alle sfide dell’ignoto.
Così lo sguardo incredulo, disarmato e fragile, che il capitano Koenig/Martin Landau getta ogni tanto fuoricampo di fronte alla sequela di sfighe cosmiche della base Alpha, non è poi tanto dissimile a quello che ci capita di lanciare, ogni giorno, di fronte alle sensazioni, le scelte, le paure che la vita ci propone.
Quando ero bambino, per affrontarle, mi stringevo a mio padre, seduto accanto a me sul divano di stoffa da cui seguivamo le avventure di Spazio 1999. Ed è un privilegio e una fortuna per me, che lui ieri sera fosse seduto in quel cinema accanto a me, capace di indicarmi oggi come allora la rotta da seguire quando piloto Aquila 1.
In ogni foto, c’è sempre una storia di fronte all’obiettivo e una dietro.
La storia davanti all’obiettivo qui, e in tante altre foto che rimbalzano sui media in queste ore, è quella di Luiz Inácio da Silva, per tutti Lula . E’ la storia che si fa Storia perché Lula torna Presidente del Brasile dopo 11 anni. Dopo la galera, il fango, le menzogne.
La storia dietro l’obiettivo è invece quella di Ricardo Stuckert , il fotoreporter che da vent’anni racconta Lula.
“Stuckinha” sta a Lula come Pete Souza sta a Barack Obama. Souza, per la verità, prima di Obama, agli opposti aveva raccontato Ronald Reagan e l’aveva comunque fatto da professionista della fotografia in modo interessante.
Nel caso di Stuckert, invece, la sovrapposizione tra politico e fotografo è quasi assoluta. Il fotoreporter brasiliano non ha mai rinnegato – anche nei momenti più scomodi – la sua vicinanza all’ex sindacalista e politico di sinistra.
Perché per lui quella di Lula non è una storia tra le altre, ma la Storia. La storia del suo paese e della sua gente. Le foto di Stuckert raccontano Lula con il popolo, mostrano ciò che le élite ultraconservatrici, rappresentate dal Presidente uscente Jair Bolsonaro, hanno cercato di far scomparire in questi anni dalla narrazione dei media: gli indigeni, i neri, i lavoratori, i poveri, la collettività.
Stuckert concepisce la fotografia come strumento di “dignità sociale” in cui il valore massimo è il rispetto per i protagonisti delle sue storie visive:
“..La presenza di una persona con una macchina fotografica intimidisce sempre. Non è un oggetto qualunque. …Dio è molto saggio, ci ha dato due orecchie e una bocca. Ho cercato di rispettarlo come concetto nel rapporto con chiunque mi trovi di fronte.”
Diceva Jules Verne, uno dei primi scrittori a immaginare viaggi umani sulla Luna:
Quello che certi uomini posso sognare, altri possono realizzarlo
Ecco. Vi chiedo per un momento di dimenticarvi del prezzo del gas (sigh), delle devianze vere e presunte, dei venezuelani buoni e degli slavi cattivi. Oggi alle 14.33 (ora italiana), se non avete grandi impegni, abbiamo un appuntamento come Umanità con un sogno chiamato Luna.
Dalla rampa 39b di Cape Canaveral, sarà lanciata la prima missione del progetto Artemis per riportare l’uomo sul suolo lunare. E diversamente dalle missioni Apollo degli anni sessanta e settanta, stavolta non è solo una storia “americana”. Ci sono tante tecnologie del progetto, sviluppate in Europa, tante in particolare in Italia. Ci lavorano tante persone che conosco, che ho la fortuna di avere per colleghi. Ma anche se non siete nel settore, senza enfasi e retorica, questa è una di quelle date che può marcare il destino di intere generazioni.
Questa prima missione sarà senza equipaggio per provare che “tutto funzioni”. Perché stavolta non torniamo sulla Luna “solo” per piantare bandiere e impronte, ammesso che bandiere e impronte non fossero importanti (io al contrario penso che lo siano state allora).
Ci andiamo per studiare meglio il nostro sistema solare, per cercare risorse e modi per vivere lassù. Ci andiamo perché la Luna può essere la base e il punto di partenza per viaggi più “lunghi”. Ci andiamo perché come disse Tsiolkovsky, uno dei padri dell’astronautica moderna, la Terra è la culla dell’umanità ma non si può restare nella culla per sempre.
Ci andiamo, mi permetto umilmente di dire, perché possiamo essere migliori di così. Delle guerre, delle atrocità, delle meschinità del tempo presente e perché, forse, la miglior tecnologia che abbiamo sperimentato nella nostra civiltà si chiama Speranza.
Potete seguire la diretta del lancio uffcialmente sui canali NASA: NASA YouTube ; NASA website, Facebook, Twitch ae anche sulla NASA app. Mase googlate troverete tante dirette a commento di giornalisti, youtuber e semplici appassionati,
“Il signor @sonostorie mi manda dei versi…” Non so se era più forte l’emozione di #gianniclerici , il mio cronista di #Tennis preferito – che pronunciava il mio nome durante la diretta da Wimbledon insieme all’impareggiabile Rino Tommasi, oppure la stranezza di sentirsi dare del signore, a 16 anni. All’epoca impazzivo sia per il tennis sia per la poesia. Avevo mandato a Clerici i versi dedicati ai “gesti bianchi” da Pierre Drieu La Rochelle, scovati su una rivista italiana di poesia. E lui stava declamando in diretta tv mentre sul campo giocavano Becker o Edberg, non ricordo bene. So di sicuro che, se in quegli anni stravedevo per il tennis, oltre che per i gesti e la classe di quei campioni in campo era anche per la fortuna di ascoltarli raccontati da quel grande giornalista e scrittore. Gianni Clerici – che oggi ci ha lasciato – è stato un Italo Calvino della letteratura sportiva, raffinato e ironico, un gigante dell’emozione raccontata. Addio e grazie di tutto, vecchio , meraviglioso, Scriba.
Soldati che, per dirla in gergo fotografico, “guardano in camera”. Quante ne abbiamo viste di foto così? Dalle Guerre mondiali al Vietnam, da Kabul a Kiev. D’altronde da sempre (ancor prima della fotografia, nella pittura), la guerra è un soggetto ricorrente nei racconti visivi.
Questa foto, in particolare, è vecchia di 157 anni. Fu scattata da Mathew B. Brady nelle trincee di Petersburg, in piena Guerra Civile Americana nel 1865.
Siamo agli albori del “Fotogiornalismo” e Brady ne è considerato uno dei pionieri. La tecnologia dell’epoca non permetteva molta agilità: la camera andava piazzata con attenzione, lentamente. Per forza di cose dovevi comporre “il quadro” e rendere consapevoli i soggetti della tua presenza.
Siamo ancora lontani dall’agilità disperata e coraggiosa dei reportage di guerra successivi. Ma i limiti tecnici non impediscono a Brady di raccontare la guerra, visivamente, per l’immane tragedia che è. Le sue foto mostrano carneficine, distruzione, corpi inerti e smembrati. Perfino in questo “tranquillo” ritratto di gruppo, ogni sguardo di soldato è un doloroso squarcio nello spazio e nel tempo, che ci riporta su quel campo di battaglia, come se fosse accaduto ieri, come se stesse accadendo ora.
Ed, in fondo, sta davvero accadendo (anc)ora. In questa foto di 157 anni fa, come per le strade di Mariupol. Perché questa è la cosa che, per certi versi, più colpisce in termini di comunicazione visiva. Esattamente come abbiamo evoluto le tecnologie per farci la guerra, abbiamo evoluto quelle per documentarla. Per tramandare a chi verrà tutta la nostra insensata capacità di toglierci la vita, di annullarci, di autodistruggerci.
E, forse, a questo punto, l’unica cosa che possiamo augurarci è che ci siano altri esseri umani, anche in futuro, a guardare le foto di Mariupol, come noi oggi guardiamo quelle di Petersburg. Sbigottiti ma al tempo stesso rassegnati alla nostra stupidità collettiva come specie.
In macchina, io e cucciolo. Io guido, lui guarda fuori dal finestrino.
Cucciolo: “Papà, se tu fossi Ucraino, se fossi a Kiev voglio dire, oggi che faresti?”
Io: “Beh, come prima cosa cercherei di mettere in salvo tu, cucciola e la mamma. Di portarvi lontano…”
Cucciolo: “Vuol dire che tu, invece, rimarresti lì a combattere?”
Io: “… No, non credo. A parole è facile dirlo… Io non so usare nemmeno un’arma, però sì penso che rimarrei lì a dare una mano. Forse non combattere, ma aiutare gli altri, ci proverei…”
Cucciolo: “Anche a costo di morire?”
Io: “Beh… Non lo so, cucciolo, ti ho risposto di getto, ma sono cose complicate.”
Cucciolo rimane in silenzio per qualche secondo, fissando il paesaggio tranquillo della campagna fuori dal finestrino.
Cucciolo: “Io penso che gli Ucraini dovrebbero arrendersi, non hanno speranze. Pure se hanno ragione, non hanno i mezzi per combattere Putin!”
Io: “Sì, forse è vero. Ma è il loro paese, la loro terra, cucciolo. E’ normale battersi per quello in cui credi, a volte, anche se è una cosa disperata.”
Cucciolo: “E perché se la loro è una battaglia giusta, se Putin sta sbagliando, allora, noi Europei, non andiamo ad aiutare gli Ucraini?”
Io: “Putin è un dittatore, ma noi europei non possiamo intervenire, perché l’Ucraina non fa parte della NATO, la nostra alleanza.”
Cucciolo: “Non fanno parte della Nato, perché Putin gli impedisce di scegliere!”
Io:” Si ma non è solo quello… Putin è molto potente, ha tante armi nucleari… Anche se volessimo aiutare gli Ucraini, non potremmo farlo militarmente. Comunque l’Europa sta mettendo delle sanzioni sulla Russia, come delle punizioni per quello che sta facendo…”
Cucciolo: “Quindi non abbiamo più rapporti con la Russia?”
Io: “Beh, in parte è così, ma in parte no… perché abbiamo bisogno del loro gas per scaldare le nostre case e per funzionare le fabbriche. E’ complicato…”
Cucciolo: “Si, papà, il mondo di voi grandi è complicato ed è pieno di Ma…”
Stamattina, Francesco Costa, vicedirettore de “Il Post”, si è affettuosamente congedato da quella parte di fedeli ascoltatori di “Morning”, la rassegna stampa via podcast, curata ogni mattina per il quotidiano online, che da lunedì prossimo non potranno più seguirlo.
Per le sue prime 99 puntate il podcast è stato “aperto a tutti”, con una felice scelta editoriale che ha permesso alla rassegna e al suo conduttore di farsi conoscere e apprezzare da tanti. E, forse, proprio per il suo crescente successo, “Morning” è diventato, mi sembra, un vero e proprio esperimento di fidelizzazione per tutto “Il Post”.
Da lunedì prossimo, potrà continuare ad ascoltarlo solo chi è abbonato a “Il Post”, esattamente come per tutti gli altri, interessanti, podcast prodotti nel tempo dal quotidiano diretto da Luca Sofri.
So du’ etti e mezzo di Morning, signora, che faccio lascio?
Con un insospettabile talento da “paper boy”, lo stesso Francesco Costa si è ritagliato nel corso delle ultime rassegne, dei piccoli spazi promozionali per invitare – con molta autoironia e passione – i lettori/ascoltatori ad abbonarsi per continuare a seguire “Morning”.
Ci sta. La pubblicità è l’anima del commercio, persino del commercio mediale, quel consumo culturale d’informazione che tutti noi ogni giorno facciamo, con contenuti ” a gratis” (ma lo sono davvero?) oppure acquistati.
Per esempio, io a pagare di tasca mia per informarmi, sono abituato fin da ragazzo. Penso di essere l’unico teenager al mondo che abbia chiesto ai propri genitori, come regalo di compleanno, l’abbonamento a un quotidiano… All’epoca esisteva solo il “cartaceo”, come si usa dire oggi con un’espressione che fa molto Era del Pleistocene, ma che rispecchia, ahimè, le quarantasette primavere con cui guardo le cose attraverso le lenti, ormai, multifocali.
Trent’anni fa, un abbonamento del genere era una roba relativamente costosa, o almeno così lo ricordo con il metro di spiantato ragazzino. Eppure mi sembrava un consumo necessario, indispensabile come l’aria che respiravo.
Malgrado, la diffidenza – diciamo pure nausea in molti casi – che ho maturato nel tempo da lettore e da “operatore della comunicazione” verso il circuito dei media del nostro Paese, una parte di me continua a pensare che pagare per informarsi sia una buona cosa. Ovviamente, il corollario del ragionamento è “scegliendo bene e potendoselo permettere”.
Ecco, esattamente qui sta il punto.
Il Mattino ha Morning in bocca
Ascoltando oggi Francesco Costa ricordare che da lunedì mattina solo “noi” abbonati potremo seguire la sua rassegna – lo ammetto – ho provato quel filino di egoistico piacere che provi nei grandi parchi d’intrattenimento quando salti la fila chilometrica, perché ti sei pagato un “pass” speciale.
Ed io sono contento di pagare il pass per poter continuare a seguire l’ottima rassegna di Morning, le argute chiose di TienimiBordone e gli altri interessanti contenuti speciali che “Il Post” produce.
Posso permettermelo, magari rinunciando a un maglione griffato durante l’anno: meno La Coste e più Il Costa. Ma, a parte gli scherzi, voglio anche ricordare a me stesso che questo abbonamento alla buona informazione è un privilegio.
Perché, per fortuna, la crisi non mi ha portato via il lavoro come accaduto a tanti. Perché, per fortuna, non devo scegliere tra un abbonamento ad un quotidiano e un giocattolo ai miei figli. Perché , per fortuna, non devo fare come quell’anziano signore che, l’altra sera, al supermercato, con molta dignità, ha appoggiato sul bancone la spesa fatta e, poi, passando alla commessa una banconota da venti euro, ha chiesto:
Ho solo questi. Ce la faccio a pagare tutto?
Insomma sono contento che, come abbonato e affezionato lettore de “Il Post”, da lunedì potrò in esclusiva continuare ad ascoltare “Morning“. Ma sarei stato altrettanto contento, se con il mio abbonamento avessi contribuito minimamente a tenere “Morning” aperto a tutti, esattamente come sono contento che, con il mio abbonamento , l’informazione di qualità de “Il Post” resti disponibile in rete.
Inutile nasconderselo: non esiste un diritto pubblico alla buona informazione. Dobbiamo conquistarcelo nel libero mercato delle news con le nostre scelte di lettori e consumatori , perché come ha scritto un pericoloso rivoluzionario:
“Stranamente, non abbiamo mai avuto più informazioni di adesso ma continuiamo a non sapere che cosa succede.”
Le immagini del post sono : Norman Rockwell “The polls” (Copertina del Saturday Evening Post, 1944 – particolare); Norman Rockwell “Behind the Newspaper” (Copertina del Saturday Evening Post, 1930 – particolare); “Norman Rockwell visits a country editor” (illustrazione del Saturday Evening Post, 1946)
Ci sono storie senza tempo ma c'è un tempo per ogni storia.