Il fascino discreto del disegno bonelliano

Michele Medda, sceneggiatore della serie Caravan (su cui ho già scritto qui), sostiene oggi ,con un pò di rammarico, che lettori e critici si concentrano di solito sugli aspetti narrativi dei fumetti seriali, trascurando l’apporto fondamentale del disegnatore e le logiche  seriali del prodotto.

Condivido molte delle cose scritte da Michele ma, nell’occasione, credo si possa fare anche qualche considerazione interessante sulle particolarità dello stile grafico delle serie bonelliane.
E’ innegabile la qualità dei disegnatori di via Buonarroti. Ma è anche innegabile, salvo qualche eccezione, che questa qualità sia definita  all’interno di uno stile di rappresentazione, pressoché standardizzato. Chiariamo subito: “standard” non vuol dire “di minor qualità”. Si tratta solo di comprendere che valutare lo stile di un fumetto in cui operano diversi disegnatori è diverso dal valutare l’opera singola di un autore.

In un ambito seriale, come quello di Tex, Dylan & Co, il tratto personale che è di solito l’elemento distintivo in cui il disegnatore di fumetti  definisce la sua cifra stilistica, ha un peso ridotto. Non dico che sia ininfluente, ma dico che accanto al tratto emergono altri elementi altrettanto forti nel definire lo stile di rappresentazione di una serie.

Penso, soprattutto, alla gabbia di impaginazione delle tavole. Da questo punto di vista, i “bonelliani” rispondono tutti agli stessi “topoi” grafici: un certo numero di vignette per pagina,l’assenza (quasi totale) di vignette scontornate, e quella (quasi) assoluta di splash page.  Questi stilemi (e ce ne sono molti altri) si sono imposti nel tempo, non so se su precisa elaborazione della direzione editoriale, o semplicemente per consuetudine.

In parte, credo, si debbano all’impriting genetico del formato bonelliano. Non bisogna mai dimenticare infatti che questo formato nasce come ristampa e montaggio su tavole più grandi dell’albo “a striscia” degli anni 50 (quello con cui Tex debuttò nel 48).

Dunque, alcune di queste scelte grafiche derivano dall’abitudine degli autori di pensare la scena entro certi spazi grafici ridotti . Abitudine mantenuta, in gran parte, anche quando la pagina più ampia avrebbe permesso sperimentazioni diverse.
Lo stesso discorso, su un piano differente, si potrebbe fare per il montaggio delle scene, per l’utilizzo dei flashback  e delle didascalie, etc. etc. Qui è stato il connubio con il cinema, che dagli anni 70 in poi (penso che lo spartiacque sia stata la serie di  Ken Parker) ha finito per imporre a tutti i prodotti bonelliani un serie di formule “tipiche”.
Ci tengo a ribadirlo, nelle mie parole non c’è alcun intento denigratorio. Lo standard grafico “bonelliano” vanta tuttora elementi di grande modernità ed efficacia. Questo stile ha contribuito a regalarci negli anni alcune serie di assoluta qualità, se le paragoniamo anche in un contesto internazionale. Dico, semplicemente, che lo stile comune finisce, nella percezione del lettore, per prevalere sulle differenze fra un disegnatore e l’altro.

Per cui, il lettore (e anche il critico) sono portati a privilegiare il plot, la caratterizzazione dei personaggi, piuttosto che gli aspetti visivi.
Per fare un paragone con il linguaggio degli audiovisivi, non proprio perfetto ma che mi sembra comunque calzante, il ruolo dei disegnatori nel fumetto bonelliano è più simile a quello dei registi delle serie televisive, che non a quello dei registi cinematografici. Al cinema, il regista emerge anche, se non soprattutto, per la sua capacità di imporre un marchio di originalità all’opera, costruendo un suo personale discorso visivo.

Al contrario nelle serie tv, il regista deve tener conto di logiche diverse – e dal suo stesso alternarsi in quel ruolo, magari con altri registi – per cui l’assoluta originalità non è più un valore e può diventare anche un danno per il racconto seriale.
Ecco, direi che il talento dei disegnatori bonelliani vada considerato un talento mimetico, certo meno appariscente ma non per questo meno importante, di quello di altri stili ed autori di fumetti.

Michele Medda è stato così gentile e attento da rispondermi nei commenti. Ecco qui le sue interessantissime annotazioni:

Analisi lucida, Marco. Mi limito ad aggiungere una cosa, frutto di esperienza personale. Nei primi anni di Nathan Never, io, Serra e Vigna abbiamo provato a modificare la tradizionale griglia bonelliana, in qualche caso con risultati interessanti dal punto di vista grafico.

Tuttavia ci siamo accorti ben presto che, come dici anche tu, i disegnatori italiani hanno una predisposizione “genetica” a ragionare in termini di “griglia fissa”. Ogni variazione richiede quindi una preparazione laboriosa, cioè molte spiegazioni e molto tempo, sia per chi scrive e per chi disegna. (A eccezione chiaramente di chi disegna le proprie storie, come Luca Enoch). E dato che questo rallentava di molto il lavoro, gradualmente le modifiche della griglia tradizionale sono state abbandonate.

Forse – non ne avremo mai la certezza – se nelle serie successive a Nathan Never si fosse cercata un’impaginazione più “mossa”, questa “predisposizione genetica” sarebbe stata modificata, e non saremmo qui a discutere. Così non è stato, comunque.

Inoltre non va dimenticato che esiste anche una politica della casa editrice che coinvolge le scelte grafiche. Motivo per cui le impaginazioni su quattro strisce, per esempio, sono dosate col contagocce. E non solo: un’impaginazione “all’americana” non sarebbe applicabile a qualsiasi serie; per esempio, su serie come Magico Vento (oltre che sui classici Tex e Zagor, ovviamente) sarebbe fuori luogo.

Presumo che il fumetto Bonelli abbia raggiunto una forma compiuta che molto difficilmente potrà essere modificata (diminuire il numero delle vignette in una tavola significherebbe alterare considerevolmente il ritmo della narrazione rispetto allo standard attuale).

Detto ciò, e fermo restando che la “personalizzazione” del segno incontra notevoli limiti nelle nostre serie, esiste comunque uno spazio per l’analisi del rapporto del disegno con la sceneggiatura. E un critico capace (o un lettore attento) non dovrebbe ignorarlo.”

4 pensieri riguardo “Il fascino discreto del disegno bonelliano”

  1. Analisi lucida, Marco. Mi limito ad aggiungere una cosa, frutto di esperienza personale. Nei primi anni di Nathan Never, io, Serra e Vigna abbiamo provato a modificare la tradizionale griglia bonelliana, in qualche caso con risultati interessanti dal punto di vista grafico.

    Tuttavia ci siamo accorti ben presto che, come dici anche tu, i disegnatori italiani hanno una predisposizione “genetica” a ragionare in termini di “griglia fissa”. Ogni variazione richiede quindi una preparazione laboriosa, cioè molte spiegazioni e molto tempo, sia per chi scrive e per chi disegna. (A eccezione chiaramente di chi disegna le proprie storie, come Luca Enoch). E dato che questo rallentava di molto il lavoro, gradualmente le modifiche della griglia tradizionale sono state abbandonate.

    Forse – non ne avremo mai la certezza – se nelle serie successive a Nathan Never si fosse cercata un’impaginazione più “mossa”, questa “predisposizione genetica” sarebbe stata modificata, e non saremmo qui a discutere. Così non è stato, comunque.

    Inoltre non va dimenticato che esiste anche una politica della casa editrice che coinvolge le scelte grafiche. Motivo per cui le impaginazioni su quattro strisce, per esempio, sono dosate col contagocce. E non solo: un’impaginazione “all’americana” non sarebbe applicabile a qualsiasi serie; per esempio, su serie come Magico Vento (oltre che sui classici Tex e Zagor, ovviamente) sarebbe fuori luogo.

    Presumo che il fumetto Bonelli abbia raggiunto una forma compiuta che molto difficilmente potrà essere modificata (diminuire il numero delle vignette in una tavola significherebbe alterare considerevolmente il ritmo della narrazione rispetto allo standard attuale).

    Detto ciò, e fermo restando che la “personalizzazione” del segno incontra notevoli limiti nelle nostre serie, esiste comunque uno spazio per l’analisi del rapporto del disegno con la sceneggiatura. E un critico capace (o un lettore attento) non dovrebbe ignorarlo.

  2. Grazie Michele per l’attenzione al post. Mi continuo a sorprendere sempre (in senso positivo) della generosità con cui dialoghi con noi lettori. Tornando alla questione, le tue annotazioni “tecniche” risultano preziose, perchè permettono di vedere la tua macchina seriale dall’interno. Ricordo benissimo le “sperimentazioni” del primissimo Nathan Never e, da lettore che entrava proprio in quel momento nella sua maturità, anagrafica, ma soprattutto fumettistica, mi colpivano molto.
    Certo ormai la macchina Bonelliana è consolidata, ed è molto interessante la riflessione che fai sul fatto che modificare il numero delle vignette per pagina significerebbe alterare i ritmi della narrazione. Ma è possibile che la nuova formula delle miniserie possa anche aiutare a sperimentare soluzioni diverse. Chissà.

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