Il Uest di Tecs

Il West è l’ingenuità di un fanciullo.

E’ la realtà di un fanciullo. E mi sembra la cosa più sacrosanta da difendere.

Sergio Leone

Ho iniziato a leggere Tex Willer, anzi Tecs Uiller, a cinque anni.
Beh “leggere” è una parola grossa… Mi limitavo a guardare le figure ed immaginare il resto.

A volte, mio padre scorreva le vignette assieme a me ed arricchiva i disegni sulla pagina con improvvisazioni da rumorista: il nitrito dei cavalli al galoppo, gli echi delle “sputafuoco”. Una abilità derivata dai tanti pomeriggi che, lui stesso, da ragazzo aveva trascorso con Tex, acquattato sotto il libro d’algebra.

Certo, io e mio padre non  rappresentiamo un’eccezione. Sono oltre sessant’anni che migliaia di lettori scorazzano per le praterie del “selvaggio Ovest” americano insieme al personaggio, creato da Gianluigi Bonelli ed Aurelio Galeppini, che in questi giorni traguarda il numero 600 della serie regolare (qui lo speciale de Lo Spazio Bianco).

Una tribù di appassionati di cui Aquila della Notte si è guadagnato la fiducia come con i suoi amati indiani Navajo, avventura dopo avventura, albo dopo albo,  decennio dopo decennio.

Inutile nasconderselo: il successo attuale è l’ombra di quello travolgente di un tempo, i bambini hanno smesso da un pezzo di giocare ad “indiani e cauboi”.

Se Tex ancora resiste, laddove tanti epigoni, magari più “maturi” come Magico Vento (qui una bella riflessione sulla fine di questa serie), cedono il passo, è paradossalmente per la sua profonda inattualità .

Il suo West non ha mai fatto i conti con la storia. Appartiene ad un altrove mitico tra  Nogales e Busto Arsizio, tra la Foresta Pietrificata e Caltanissetta. E’ il Uest, come l’abbiamo sognato noi  italiani per decenni, con l’ingenua certezza del mito, con la sognante fiducia della favola.

Sì, anche se può sembrare strano dirlo con tutti quei morti e quelle pallottole,  Tecs Uiller è davvero una fiaba. Una fiaba che, ormai, possiede  il gusto retrò della nostalgia,  e per cui è difficile immaginare l’interesse di un pubblico giovane.

“Storie!” Direbbe lui se gli lasciassimo la parola:“Ne ho incontrati di menagrami sul mio sentiero, ma deve ancora nascere la testa di vitello che mi spedirà a fare la conoscenza di messer Satanasso!”

E forse ha ragione (d’altronde chi avrebbe il coraggio di mettersi contro un tanghero del genere?). Malgrado previsioni editoriali più o meno pessimistiche, sembra ancora lontana per il ranger l’ora di appendere gli speroni al chiodo. Per fortuna sua. Per fortuna nostra.

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